Terapia Cognitivo-Comportamentale

 

La psicoterapia cognitiva è stata sviluppata negli Stati Uniti da Aron T. Beck, all'epoca uno psicoanalista, intorno alla fine degli anni sessanta. L'autore descrive la nascita di questo approccio terapeutico in una pubblicazione del 1976 dal titolo "Cognitive Therapy and The Emotional Disorder". Questo modello fu denominato dallo stesso autore "terapia cognitiva", in quanto riteneva che il pensiero fosse sia "il problema psicologico fondamentale", sia "il suo rimedio psicologico".

Tale approccio, quindi, si distaccava dalla psicoanalisi classica che, al contrario, riteneva che le origini della sofferenza psicologica andassero ricercate soltanto nell'inconscio della persona, al quale si poteva accedere tramite le tecniche psicoanalitiche. Oggi il modello terapeutico di Aron T. Beck è denominato terapia cognitiva standard per distinguerlo da altri tipi di terapia cognitiva nati successivamente.
La
psicoterapia cognitivo-comportamentale è tra i trattamenti più utilizzati e si dimostra molto efficace nella cura del disturbo bipolare.

Gli interventi psicoterapeutici sono finalizzati ad aiutare il paziente a conoscere meglio il proprio funzionamento e ad accettarlo, a distinguere se stesso e la propria personalità dalla malattia, a migliorare la gestione dello stress e indirettamente, quindi, a ridurre i fattori di rischio di ricaduta. Il protocollo cognitivo-comportamentale prevede, inoltre, la compilazione sistematica di una tabella dei sintomi quotidiani dell’umore, della quantità e qualità del sonno e del trattamento farmacologico assunto dal soggetto. Questa strumento può essere d’aiuto sia al paziente per aumentare la consapevolezza e la capacità di gestione del proprio disturbo, sia al medico per comprendere meglio l’andamento della sintomatologia e per impostare un trattamento più efficace.

E'' una forma di terapia psicologica che si basa sul presupposto che vi è una stretta relazione tra pensieri, emozioni e comportamenti e che i problemi emotivi sono influenzati da ciò che pensiamo e facciamo nel presente.


L’approccio cognitivo-comportamentale prevede, infine, un trattamento psicoeducativo per il paziente ed i suoi familiari perché comprendano meglio le fasi della malattia. Il modello cognitivo sostiene che ci sono tre livelli di cognizioni:

  • convinzioni profonde o core beliefs o schemi cognitivi;

  • convinzioni intermedie;

  • pensieri automatici.

Le convinzioni profonde (o core beliefs o schemi cognitivi) sono delle strutture interpretative di base con cui la persona rappresenta se stesso e gli altri e organizza il suo pensiero. In altre parole uno schema è una tendenza stabile ad attribuire un certo significato agli eventi. Ad esempio, una persona che ha uno schema di sé del tipo "Non sono amabile" penserà che nessuno mai potrà amarlo. I contenuti degli schemi cognitivi vengono considerati come delle verità assolute. Questi pensieri sono, infatti, più globali, rigidi e ipergeneralizzati rispetto alle altre forme di cognizione. Essi possono riguardare noi stessi (schema di sé), gli altri (schema dell'altro) e la relazione di sé con l'altro (schema interpersonale).

Le convinzioni intermedie sono delle idee o interpretazioni su noi stessi, sugli altri e sul mondo che ci permettono di organizzare l'esperienza, prendere decisioni in tempi brevi e orientarci nelle relazioni con le altre persone. Esse sono più malleabili rispetto alle convinzioni di base. Le convinzioni intermedie sono costituite da opinioni (es. "È umiliante andare all'esame impreparato!"), regole (es. "Devo sempre essere all'altezza della situazione!") e assunzioni (es. "Se prendo trenta tutti mi stimeranno"!).

I pensieri automatici, infine, sono le cognizioni più vicine alla consapevolezza conscia e sono delle parole, piccole frasi o immagini che attraversano la mente della persona ad un livello più superficiale (es. "Sarò sempre un fallito!"). Essi sono facilmente modificabili e sono direttamente responsabili delle emozioni provate dalla persona.Secondo il modello cognitivo, le convinzioni profonde influenzano le convinzioni intermedie e quelle intermedie influenzano i pensieri automatici; questi, infine, interferiscono direttamente sullo stato emotivo della persona.
Alcune volte le convinzioni che abbiamo su noi stessi, sugli altri o sul mondo possono essere disfunzionali, cioè possono distorcere la realtà delle cose, attivarsi in modo rigido indipendentemente dai contesti, generare pensieri automatici negativi che producono sofferenza. Il modello cognitivo ipotizza che il pensiero distorto e disfunzionale sia comune a tutti i disturbi psicologici e che sia il responsabile del protrarsi delle emozioni dolorose e della sintomatologia del paziente.

In alcuni casi, infatti, il pensiero distorto e disfunzionale può portare allo sviluppo di circoli viziosi che mantengono la sofferenza nel tempo.

La terapia cognitiva, pertanto, interviene sui pensieri automatici negativi, sulle convinzioni intermedie e sugli schemi cognitivi disfunzionali al fine di regolare le emozioni dolorose, interrompere i circoli viziosi che mantengono la sofferenza nel tempo e creare le condizioni per la soluzione del problema. Gli studi scientifici sul trattamento dei disturbi emotivi indicano che se si ottiene una modificazione profonda delle convinzioni si hanno meno probabilità di ricaduta in futuro.
Lo scopo della terapia è la risoluzione dei problemi attuali del paziente e l'attenzione del terapeuta è rivolta soprattutto al qui ed ora. In modo particolare il terapeuta pone la sua attenzione su ciò che nel presente contribuisce a mantenere la sofferenza, pur considerando gli eventi passati e le esperienze infantili come utili fonti d'informazione circa l'origine e l'evoluzione dei sintomi.

Il terapeuta istruisce il paziente sulla natura del suo disturbo, sul processo della terapia e sulle tecniche cognitive e comportamentali.
Il paziente, quindi, viene allenato a prendere consapevolezza del proprio funzionamento mentale e ad utilizzare le tecniche per gestire la propria sofferenza.
L'acquisizione delle abilità di gestione delle emozioni dolorose permette al soggetto di beneficiare del trattamento anche dopo la conclusione della terapia.


Fonte: http://www.terzocentro.it/la_psicoterapia_cognitiva/che_cosa_e_la_psicoterapia_cognitiva.aspTerzocentro

 

 

                                                                                                  

Terapia Comportamentale- Pensieri Automatici Disfunzionali

Secondo la TCC le emozioni e i comportamenti delle persone vengono influenzati dalla percezione degli eventi, non è la situazione in sé a determinare direttamente ciò che le persone provano, ma è piuttosto il modo in cui esse interpretano certe esperienze. La TCC aiuta le persone ad identificare i loro pensieri angoscianti e a valutare quanto essi siano realistici, mettendo in luce le interpretazioni errate e proponendone delle alternative, delle spiegazioni più plausibili. La valutazione realistica degli eventi e la modificazione del modo di pensare producono un miglioramento dell’umore e del comportamento, nonché benefici duraturi attraverso la modificazione delle credenze disfunzionali sottostanti. E’ una terapia che agisce sui pensieri automatici, sui pensieri e le immagini distorte, che attraversano in maniera rapida e incontrollata la mente di una persona di fronte a certe situazioni specifiche e ne condizionano negativamente l’umore, nonché agisce sulle credenze intermedie (più superficiali) e di base (radicate, sottostanti).

 

Gli studi confermano dunque la relazione tra pensieri automatici e livelli di autostima. Certo, non è possibile determinare un rapporto causale tra i due, ma risulta chiaro che in soggetti con alti livelli di autostima, i pensieri disfunzionali tendono a diminuire, mentre al decremento dell’autostima, i pensieri disfunzionali tendono ad incrementare, e/o viceversa.

I contributi teorici di Ellis e di Beck suggeriscono come in tutti gli individui sia possibile riscontrare delle ideazioni automatiche che possono interferire con le prestazioni in alcune circostanze della vita quotidiana. Dunque, i pensieri disfunzionali e automatici non caratterizzano solo condizioni cliniche molto rilevanti e condotte comportamentali disadattive e patologiche, che inficiano la qualità della vita del soggetto stesso, ma possono presentarsi anche in condizioni psichiche normali. A conferma della loro azione anche in condizioni di normalità, gli studi su campioni normali hanno evidenziato come la frequenza di tali pensieri varia in funzione del livello di autostima degli individui. L’analisi del ruolo giocato dall’autostima resta tuttavia uno dei pochi contributi volti a indagare le fonti delle differenze individuali nella frequenza dei pensieri disfunzionali tra gli individui sani.

Istruttivo e interessante .ppt al link 

 

Psicoeducazione e Terapia Cognitivo Comportamentale nel Disturbo Bipolare: alcune esperienze

Il trattamento dei pazienti bipolari presenta caratteristiche e complessità particolari. In tale ambito, un ruolo significativo può sicuramente essere riconosciuto alla psicoeducazione.

Tale approccio, semplificando, consiste nel fornire al paziente in modo chiaro, semplice, didattico e possibilmente interattivo, le informazioni e le istruzioni per prevenire ed affrontare, su di un piano concreto, i disturbi mentali e disagi di natura psicologica ed interpersonale.

Nello specifico, l’intervento psicoeducazionale nel Disturbo Bipolare ha come principali obiettivi quelli di 1) aumentare il livello di informazione e consapevolezza sulla malattia, sul possibile decorso, sulle conseguenze della non aderenza alla terapia farmacologica, 2) accrescere il livello di informazione sulle terapie farmacologiche disponibili, sull’efficacia degli stabilizzanti del tono dell’umore, sugli effetti collaterali che possono comparire a seguito dell’assunzione della terapia, 3) coinvolgere i membri della famiglia nei processi psicoeducativi, 4) individuare gli eventi stressanti, i primi sintomi ed elaborare le strategie per fronteggiarli, 5) promuovere condizioni di vita igieniche (regolarità del ritmo sonno-veglia; alimentazione; movimento). Secondo Colom e Vieta (2004) il paziente bipolare ha la percezione, attraverso le puntuali spiegazioni inerenti il disturbo, che lo specialista ha compreso tempestivamente le situazioni che vive con vergogna, con un senso di isolamento, o con la convinzione che siano uniche ed incomunicabili. Il paziente psicoeducato “sa che sappiamo” e questo si traduce in un miglioramento della relazione terapeutica. La psicoeducazione risponde, pertanto, ad un diritto fondamentale del paziente e di qualsiasi altro essere umano: il diritto all’informazione.

Avendo la possibilità di lavorare con i pazienti bipolari entro un setting individuale, ho potuto sperimentare personalmente “la potenza” e l’efficacia di questo tipo di intervento. Relativamente ai quadri sintomatologici di gravità media, ho notato come questi pazienti riescano a trarre un beneficio immediato, un “sollievo”, dal sentirsi compresi nella propria sofferenza e dalla possibilità di “dare un nome”, di circoscrivere e di inquadrare precisamente i “movimenti affettivi” e le conseguenze emotive, cognitive e comportamentali che ne derivano. In alcune occasioni, ho avuto la possibilità di testare l’efficacia della psicoeducazione nel momento in cui il paziente presentava, proprio durante il percorso psicoterapico, delle oscillazioni timiche di entrambe le polarità. La gestione della comparsa spontanea della sintomatologia affettiva è stata favorita attraverso il puntuale riconoscimento dei sintomi, potendo lavorare “in vivo” sugli aspetti comportamentali ma anche cognitivi che caratterizzano gli stati depressivi, quelli ipo-maniacali ed anche l’espressione disforica di questi ultimi. Ho avuto modo di osservare come, attraverso l’esperienza diretta opportunamente spiegata e contestualizzata, alcuni pazienti riescano più facilmente a riconoscere, capire e orientarsi in questi diversi vissuti emotivi e comportamentali. Ho inoltre riscontrato nel caso di un paziente che manifestava una costellazione sintomatologica particolarmente grave, ascrivibile ad un Disturbo Bipolare di tipo I caratterizzato da scarsa compliance e da una parziale consapevolezza di malattia, come l’interruzione della psicoterapia e del costante processo di psicoeducazione abbia favorito l’insorgere di un episodio grave con tonalità miste cui è seguito il ricovero in ambito specialistico. Questo mi ha dato personale conferma del fatto che le probabilità di uno scivolamento in un episodio acuto aumentano quando alle oscillazioni fisiologiche dell’umore non corrisponde, in parallelo, un monitoraggio costante della sintomatologia. Di qui, emerge in modo chiaro quale possa essere l’importanza della costruzione e del mantenimento, in termini temporali, di un intervento psicoeducazionale e psicoterapico, oltre che farmacologico, su questo tipo di disturbo.

Tuttavia, laddove il quadro clinico lo permette, ho trovato problematico un particolare passaggio terapeutico, quello che (perlomeno a mio avviso) può rendersi opportuno in fase eutimica, ovvero dopo un consistente periodo di assenza di oscillazioni timiche. Si tratta, più in particolare, di passare dalla fase di psicoeducazione e di ulteriori interventi specifici come previsto dalla Terapia Cognitivo Comportamentale (Basco e Rush 2005; Basco 2006), alla fase relativa, invece, all’accettazione di emozioni negative che possono naturalmente comparire nel consueto svolgersi della vita quotidiana e che quindi non rappresentano delle vere e proprie alterazioni affettive. Detto in altri termini: attraverso quali modalità il terapeuta può guidare il paziente bipolare “psicoeducato” che ha riconosciuto le modificazioni cognitive e comportamentali, le quali precedono e seguono le fasi di opposta polarità, verso un processo di maggiore accettazione di stati emotivi negativi come la tristezza, l’irritabilità e l’inquietudine derivante da una lieve accelerazione ideica? A questo paziente, è stato chiesto, infatti, sia di monitorare costantemente la sintomatologia e/o i possibili prodromi, sia di mettere in atto tempestivamente delle attività comportamentali che lo “attivino” o, al contrario, lo “blocchino” con la finalità di uscire (o di non entrare) dalle alterazioni dell’umore. Si tratta in sostanza di dire al paziente: ora che conosci il tuo disturbo, ora che hai costantemente monitorato i sintomi, che ti sei “ri-attivato” o “dis-attivato”, prova invece a fare spazio, ad entrare dentro agli  stati emotivi che esperisci nel quotidiano e che ti creano sofferenza psicologica. Di fronte alle espressioni di sorpresa e confusione che ho potuto scorgere sul volto di alcuni pazienti, stati interni, questi, derivanti dal passaggio eccessivamente rapido e brusco da una fase all’altra della terapia, ho dovuto fare “un passo indietro”; ho dovuto spiegare in modo chiaro al paziente che se fino a quel momento erano state poste in essere delle manovre psicoterapiche finalizzate al “controllo” del Disturbo Bipolare, ora sarebbe stato opportuno, senza abbandonare le conoscenze e le competenze precedentemente acquisite, favorire in modo guidato e graduale una esposizione agli stati emotivi, agli scenari maggiormente temuti, con la finalità quindi di mettersi in contatto con esperienze dolorose continuando a perseguire gli obiettivi importanti per l’individuo entro un assetto valoriale da lui scelto. Secondo la mia esperienza, in alcuni quadri di Disturbo Bipolare, può quindi essere opportuno rendere chiaro e maggiormente fluida questa “fase di transizione”.

( Lisa Lari)

Bibliografia

Basco MR, Rush AJ (2005). Cognitive-Behavioral Therapy for Bipolar Disorder, second edition. The Guilford Press, New York.
Basco MR (2006). The bipolar workbook – Tools for Controlling Your Mood Swing. The Guilford Press, New York.
Colom F, Vieta E. (2004). Manual de psicoeducacion para el trastorno bipolar. I Edizione originale Ars Medica, Barcelona (trad. it: Manuale di psicoeducazione per il disturbo bipolare. Giovanni Fioriti Editore, Roma 2006)

Fonte

 

                                                                                                          19 Luglio 2013